Intervista di Elisa Travaglia
Milano sa essere uggiosa e deprimente, soprattutto in una piovosa domenica di gennaio. Poi succede che una giornata votata irrimediabilmente alla tristezza si trasforma nel momento più esilarante degli ultimi mesi.
Metti a pranzo, in uno dei ristoranti vegan-vegetarian-bio che tanto vanno ora di moda, una regista che non vuole stare dall’altra parte della telecamera, un’art director che si improvvisa videomaker con esiti disastrosi, una copy che quel giorno ha la stessa verve lavorativa di Morticia Addams e… il piatto è servito.
Fatima Bianchi - la regista in questione – vive e lavora tra Milano e Marsiglia. Si muove tra video-arte, ricerca, sperimentazione e documentario. Ha un occhio attento sulla vita quotidiana, alla ricerca di quei gesti e segnali che sanno cogliere la particolarità del momento e l’unicità dell’istante con sensibilità e delicatezza. Persone e luoghi che danno vita a una storia.
I suoi lavori sono stati esposti in numerosi spazi dell’arte e festival cinematografici (Vision du Réel, Fondazione Merz di Torino, Premio Fabbri, Casa Testori, Spazio Forma – Milano, Glogauair Gallery di Berlino, Hotel Pupik – Schrattenberg, Austria, OpenCityDocumentary), e al Filmmaker Festival di Milano “Tyndall” vince il Primo Premio Prospettive, 2014.
Le chiediamo proprio di “Tyndall“, ma l’intervista prende subito una piega inaspettata. Le domande preparate lasciano il posto all’improvvisazione, allo scambio di punti di vista e, non neghiamolo, all’ironia.
Quella che doveva essere una video-intervista è diventata, diciamo per “problemi tecnici”, una non-intervista non autorizzata. Quello che segue è, quindi, frutto dei ricordi, è il resoconto delle pause e del non girato (stop e rec sono concetti non per tutti, soprattutto non lo sono per un’art director).
Insomma, alla fine, quello che ne esce è una chiacchiera fra molte risate. Queste, però, sono autorizzate.
“Tyndall” riprende il nome del fenomeno di diffusione della luce dovuto alla presenza di alcune particelle nell’aria. E’ lo stesso effetto visibile dal faro che illumina Brunate (sui monti del comasco) dove Fatima è cresciuta, dove vive la famiglia che lei ha ritratto in un momento critico, quello della permanenza in carcere del fratello. Il film – perfettamente girato tra luci e ombre, spazi pieni e vuoti, presenze ed assenze – segue i personaggi nei loro gesti quotidiani, nella loro vita privata in un dialogo intimo e in un rapporto epistolare con Francesco, che risponde dal carcere.
Dentro e fuori
Elisa: Come nasce Tyndall, come è stato lavorare con i familiari? Tu sei contemporaneamente figlia, sorella, regista e attrice. Come ti sei trovata?
Fatima: “Tyndall” è frutto di un percorso lungo e travagliato. La scelta di ritrarre i familiari deriva dal mio interesse per la vita reale, per cui non mi sono allontanata tanto per cercare ispirazione. Anche se in realtà sono successe tante cose durante la registrazione, sono rimasta stupita dalla naturalezza con cui hanno partecipato i miei fratelli e i miei genitori, dalla disponibilità e dalla loro serenità. Io mi sono dovuta muovere su registri differenti: da una parte il desiderio di partecipare, dall’altra il distacco necessario e un senso di solitudine che mi ha colto nel momento delle riprese e della gestione degli incontri. Non è stato facile radunare tutti i membri della famiglia, spiegare il mio intento e riscoprire lettere intime di cui io stessa non ero a conoscenza, ma è stato un percorso che ci ha arricchito.
(Laura. fa finta di riprendere)
Il prima e il dopo
E: Come è cambiata Fatima dopo questa esperienza?
F: il film ci ha cambiato, ci ha uniti. Nessuno si aspettava questo successo, forse per questo tutta la famiglia ha partecipato al progetto con estrema naturalezza. Poi, quando “Tyndall” ha iniziato ad essere visto, apprezzato, richiesto e premiato siamo stati colti tutti veramente di sorpresa. Ora, certo, c’è maggior aspettativa. Sto lavorando ad un progetto sul nome di Fatima, un intreccio tra mondo cristiano e musulmano. A novembre ci sarà una mostra al Comune di Como su questo mio lavoro, ma il mio intento è realizzarne un film. Per questo sono andata in Palestina e andrò a breve in Portogallo per fare interviste e raccogliere materiale.
(L. fa finta di riprendere)
Il posto segreto
E: Tu compari in alcune scene del film, ma non sei subito riconoscibile…
F: C’è una scena a cui sono particolarmente legata. Ed è quella della soffitta. Si sviluppa su un doppio binario: io che all’inizio parto alla ricerca di qualcosa in soffitta e utilizzo delle inquadrature soggettive, fatte da me. Poi metto la telecamera dall’altra parte e mi riprendo quando esco dalla soffitta, decidendo quindi di smettere di cercare e di lasciarmi alle spalle la sofferenza che questo comporta. Perché la soffitta è lo spazio all’ultimo piano della casa dove ci è sempre stato vietato andare, il luogo dove le cose si sono accumulate nel tempo, ricoperte da teli bianchi per proteggerle dalla polvere. Ecco, la soffitta rappresenta il non detto, quel mondo coperto e sommerso che amo riscoprire e portare alla luce. E’ lì, infatti, che ritrovo la foto in cui io ed i miei fratelli siamo ritratti tutti insieme.
(L. stranamente riesce a riprendere!)
Usciamo dal ristorante, ci prendiamo un caffè.
L. ha finalmente capito come si usa la fotocamera del cellulare…. La rifacciamo?
Legenda
F: Fatima Bianchi
L: Laura Caleca
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